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Cambiare l’ordine delle cose è sempre più urgente

“Regarding the Italian Population”: con questo titolo, nel 1888, una vignetta del quotidiano di New Orleans The Mascot forniva una inequivocabile percezione pubblica sulla presenza degli ...

Nicoletta Dentico
Nicoletta Dentico
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“Regarding the Italian Population”: con questo titolo, nel 1888, una vignetta del quotidiano di New Orleans The Mascot forniva una inequivocabile percezione pubblica sulla presenza degli italiani approdati a milioni sulle coste degli Stati Uniti. Rappresentandoli come “una seccatura per i pedoni”, o come selvaggi alle prese con il “rilassante passatempo” di bastoni e coltelli, il vignettista prende di mira i migranti italiani e consiglia alcuni metodi per risolvere alla radice la necessità di liberarsene, tra cui l’arresto e l’annegamento. Il più grave linciaggio della storia degli Stati Uniti rimanda a un episodio di violenza razzista proprio contro la comunità italiana. Nel 1890 il capo della polizia di New Orleans, David Hennessy, era stato ucciso e la polizia aveva arrestato diversi membri della comunità italiana accusandoli dell’omicidio. Nei primi mesi del 1891 un processo stabilì l’innocenza degli imputati e l’infondatezza delle accuse. La sentenza fu impugnata con rabbia da una parte della popolazione, che il giorno dopo si radunò per “porre rimedio agli errori della giustizia”, come annunciato su un giornale locale. Il 14 marzo 1891 circa 3.000 persone si radunarono in città e la folla linciò 11 persone. Tutte innocenti, tutti di origine italiana.
Pulsioni istintive che ritornano. Abbiamo chiuso da poco un anno “basso e disonesto”, per dirla con W.H. Auden, caratterizzato da moti di radicalizzazione diffusa. Alle pagine di cinismo istituzionale scritte dalla politica italiana in tema di immigrazione nel 2017, abbiamo visto corrispondere provocazioni sfrontate da parte di gruppi dell’estrema destra che in più città hanno sfruttato il confuso clima culturale del paese per occupare spazi fisici e la visibilità dei media, inneggiando alla difesa dell’identità della stirpe.
In questi giorni assistiamo esterrefatti al dipanarsi di eventi – mi riferisco a quelli, recenti, di Macerata – che a prima vista paiono incomprensibili nel loro ginepraio di violenza, salvo poi svelare la cultura del nemico che riemerge nelle forme più aberranti e terroristiche, la memoria collettiva mai costruita, i conti mai fatti con il nostro passato. E così, dall’America di Trump infiammato contro i giovani “Dreamers” all’Italia in campagna elettorale sembra uscire allo scoperto un clima aperto di razzismo e xenofobia. Politici e media amplificano i commenti sui social media, come se l’espressione di odio razziale nei confronti dei migranti, con linguaggi e gesti violenti, non fosse più un tabù ma una legittima opinione. Intanto il giornale Guardian riporta, citando Infoantifa Ecn, che in Italia si sono registrati 142 attacchi da parte di gruppi neofascisti dal 2014 ad oggi.
La frontiera, scriveva nel suo libro l’amico Alessandro Leogrande, «è un termometro del mondo. Chi accetta viaggi pericolosissimi in condizioni inumane, non lo fa perché votato al rischio o alla morte, ma perché scappa da condizioni ancora peggiori. O perché sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile».
Ed è proprio così: nel senso che la mappa del pianeta è cambiata. Dopo secoli di spedizioni europee alla conquista di nuovi territori, l’assoggettamento dell’altro e la sistematica rapina dei suoi beni, la rotta delle migrazioni si è ampliata, è divenuta più complessa, con evoluzione inarrestabile. Coda di un processo di decolonizzazione riuscito solo in parte, sotto le pressioni della geopolitica imposta dal Nord del mondo.
Oggi l’estraneo ha acquistato una maggiore soggettività, anche grazie allo sviluppo immenso delle tecnologie della comunicazione, e si è messo in viaggio, sempre più consapevole delle crescenti disuguaglianze mondiali. Ha cominciato a muoversi spinto dalla necessità di livellare quelle differenze non più attraverso il confronto ma, spiega Ryszard Kapuściński, “infiltrandosi nelle regioni e nei paesi più benestanti”, più sviluppati e aperti alle opportunità, nonostante la crisi economico-finanziaria dell’ultimo decennio.
Solo qualche anno fa il finanziere americano Warren Buffet affermava che «la lotta di classe esiste e noi l’abbiamo vinta». Grazie a Buffet possiamo riesumare il termine lotta di classe poiché illumina la prospettiva di sguardo dei pochi che gestiscono le partite della finanza mondiale e orchestrano il necessario consenso politico intorno alle soluzioni filantropiche dei problemi creati da questa globalizzazione – che cos’è Davos, se non il teatro di questa rappresentazione?
I rapporti annuali sulla ricchezza globale del Credit Suisse raccontano quanto sia in voga la lotta di classe, di questi tempi. Le dimensioni del problema e le forme del dominio hanno assunto proporzioni inaudite se, come illustra la piramide, nel 2013 il 91,6% della popolazione mondiale aveva accesso al 17% della ricchezza del pianeta, mentre la piccola punta blu dello 0,7% godeva del 41% della ricchezza mondiale:

Credit Suisse, Global Wealth Report 2013
Credit Suisse, Global Wealth Report 2013

Negli anni successivi la forbice di distribuzione è andata peggiorando – l’ultimo Global Wealth Report spiega che la ricchezza globale è cresciuta in media del 6,4%, più di quella demografica, nel 2017 (parliamo di 16,7 trilioni di dollari in soli 12 mesi: sarebbero 56.540 dollari a testa, se fossero ripartiti per ogni persona adulta). I miliardari hanno visto crescere i loro denari di 762 miliardi di dollari in 12 mesi, una impennata di concentrazione delle ricchezze che avrebbe potuto porre fine alla povertà estrema 7 volte (Oxfam, 2018).
Nel 2017, lo 0.7% della popolazione controllava il 45,9% della ricchezza globale:

Global wealth

Il discorso è semplice, dunque. Migrano, uomini e donne del sud del mondo, perché servono guerre e governi compiacenti per mantenere quest’ordine delle cose. Migrano, uomini e donne, perché questo modello economico sta distruggendo l’ambiente e la possibilità di vita nei loro paesi di origine, che reagiscono anch’essi con forme di radicalizzazione.
Ma anche i soldi migrano, si muovono da sud a nord, da nord a sud, senza frapposizione di muri, mari, frontiere e soldati. Il Global Financial Integrity Report 2017 calcola che la magnitudine dei flussi illeciti di denaro da e verso i paesi “in via di sviluppo” si aggiri tra 1,4 e 2,5 trilioni di dollari nel 2014 – stime prudenziali, per l’ultimo anno di analisi disponibile. Il combinato disposto dei flussi illeciti che investono le nazioni in via di sviluppo è stimato tra il 14% e il 24% del commercio estero dei paesi interessati – una cifra impressionante, un danno colossale sulle economie nazionali e sulle società, asfissiate da giurisdizioni segrete, riciclaggio di soldi, conti anonimi, elusione fiscale.
Migliaia di high net worth individuals (termine tecnico per indicare i ricchi) decidono di trasferire le loro residenze e i loro patrimoni altrove: lo raccontano i ricercatori del Wealth Migration Review del 2017. Il rapporto rende conto del forte incremento dei migranti super ricchi, in uscita dal paese d’origine verso destinazione con climi e soprattutto regimi fiscali più miti.
Tra il 2015 e il 2016 sono cresciuti del 28% questi flussi migratori, passando da 64.000 a 82.000 persone, molte in fuga da Brasile, Cina e India, e dirette soprattutto verso l’Australia – a Sydney nel 2015 l’imposizione fiscale era di poco inferiore a quella di Londra, mentre l’imposta sui redditi di impresa era una flat tax al 30%. L’Italia, che ha siglato accordi con le bande di trafficanti della Libia per fermare il flusso delle persone depredate, prova ad attirare invece questi ricchi con la promessa di un regime agevolato e una flat tax ancora più ridotta – grande tema della campagna elettorale, camuffata da beneficio per gli italiani.
«La crisi dei rifugiati non riguarda i rifugiati» ha scritto in un recente editoriale sul Guardian l’artista cinese Ai Wei Wei: «la priorità che noi attribuiamo ai guadagni finanziari, a sfavore delle lotte delle persone per rispondere alle necessità della loro vita, è la causa di questa crisi». Ma, dice Ai Wei Wei, «la natura dell’acqua è scorrere. La natura umana cerca la libertà, e questo desiderio dell’umanità è più forte di qualunque forza naturale».
Per questo occorre uscire dalla rappresentazione puramente umanitaria del fenomeno migratorio, che non basta più e si presta suo malgrado alla costruzione della paura e della minaccia (contro ogni evidenza numerica, in Europa come negli Stati Uniti). Per questo occorre provare a oltrepassare la categoria della “vittima”, che poco spiega della complessa dinamica di oppressione che determina la vita di tanti. Per questo serve spiegare, con pazienza, la correlazione fra la “fuga delle persone” dai paesi del sud globale e la “distruzione della vita delle persone della classe media” nel nostro continente. Senza il nostro riconoscimento del contributo che questi stranieri migranti impoveriti possono dare alla nostra riconquista della “civiltà costituzionale europea”, minacciata invece – questo sì- dall’urlo gutturale dei riemergenti fascismi, il nostro stesso destino di popoli europei è tristemente segnato.