Speculazione: se la finanza attacca il cibo

Giugno 2008, febbraio 2011. Sono le date chiave della storia recente del mercato alimentare globale. Due momenti emblematici, due picchi dei livelli di prezzo delle materie prime.

Matteo Cavallito
Matteo Cavallito
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Giugno 2008, febbraio 2011. Sono le date chiave della storia recente del mercato alimentare globale. Due momenti emblematici, due picchi dei livelli di prezzo delle materie prime (commodities) capaci di mandare in orbita il mercato e di garantire enormi profitti agli operatori meglio collocati. Ma anche, ovviamente, di ricacciare nella povertà milioni di individui limitando la loro capacità di accesso alle risorse e minacciandone, di conseguenza, la sicurezza alimentare.

L’esplosione dei prezzi

A raccontare questa storia ci pensano i numeri, a cominciare da quelli registrati dall’indicatore più importante: il Food Price Index della Fao, frutto di una media ponderata di diverse commodities.

Nel corso del 2008 l’indice ha registrato il primo picco storico oltre quota 200 punti (+121% rispetto al valore del 2000) per poi andare incontro a un calo e a una successiva risalita fino all’aggiornamento del primato nel 2011 (229,9 punti, +156% rispetto al dato di inizio millennio). Nei tre anni successivi il dato medio è diminuito leggermente, ma si è sempre mantenuto a livelli piuttosto alti. L’ascesa dei prezzi, per altro, era iniziata già negli anni precedenti. Nel periodo 2003- 2008, per rendere l’idea, il valore di mercato delle 25 principali materie prime (tra cui cacao, caffè, mais, soia e frumento) è aumentato mediamente del 183%. Un’impennata che ha avuto conseguenze clamorose. Nel solo 2008, stimava qualche anno fa la Banca Mondiale ripresa anche dalle Nazioni Unite (“The Global Social Crisis – Report on the World Social Situation 2011”, Onu, giugno 2011), l’emergenza sperimentata sul fronte alimentare avrebbe spinto nella povertà da 130 a 155 milioni di persone. Un dato, sottolineava l’Onu, tradottosi nelle celebri «rivolte per il pane», che a partire da quell’anno avrebbero «minacciato i governi e la stabilità sociale in Africa, Asia, Medio Oriente, America Latina e Caraibi».

L’epopea dei derivati

Ma come si spiegano i clamorosi rialzi degli anni? I fattori sono molteplici, dalla crescita della domanda materiale – favorita dallo sviluppo economico senza precedenti dei mercati emergenti – fino all’espansione dei biocarburanti (responsabili di tre quarti dell’incremento dei prezzi tra il 2002 e il 2008 secondo la stima di uno studio riservato della Banca Mondiale diffuso successivamente dalla stampa – “Secret report: biofuel caused food crisis”, Guardian, 3 luglio 2008). Ma a sorprendere in modo particolare, inevitabilmente, è il peso di un altro fattore: l’impennata degli scambi sulle materie prime nei mercati finanziari.
È l’epopea, per intenderci, dei contratti differiti d’acquisto come futures e forward che da “polizza di assicurazione” contro la volatilità dei prezzi sono diventati col tempo uno strumento speculativo privilegiato. Alla fine, si dice spesso nell’ambiente dei trader, le variabili materiali (domanda e offerta nel mercato fisico) prevalgono sempre e la speculazione finanziaria in senso stretto non può pesare più di tanto troppo a lungo. Ma è un dato di fatto, ammettono ormai anche i legislatori di Usa e Unione europea, tuttora impegnati nell’implementazione delle nuove norme per la regolamentazione degli scambi, che l’uso massiccio degli strumenti derivati sia in grado di produrre evidenti distorsioni nel mercato. Il classico eufemismo, per intenderci, con cui si definiscono le bolle speculative.
Nel 2003, dicono i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, i futures sulle materie prime (esclusi i metalli preziosi) valevano 952 miliardi di dollari. Nel giugno del 2008, nell’anno del primo storico picco delle food commodities e del petrolio, l’ammontare totale aveva raggiunto secondo l’analisi della Federal Reserve Bank of St. Louis i 2,13 trilioni (mila miliardi) di dollari. Nell’agosto dello stesso anno, stimava un rapporto della banca francese Crédit Agricole, la posizione di mercato dei derivati scambiati sulla piazza di Chicago ammontava a un quarto dell’intera produzione mondiale di mais e soia e all’8% di quella del frumento.
[Articolo comparso sul supplemento al n. 128 di Valori]
Foto: Steven Walling