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Il mistero dei derivati nei conti dello Stato

Lo scorso anno l’Italia ha pagato 2,76 miliardi di euro in meno di interessi sul debito pubblico, in particolare grazie agli interventi della BCE. Peccato ...

Lo scorso anno l’Italia ha pagato 2,76 miliardi di euro in meno di interessi sul debito pubblico, in particolare grazie agli interventi della BCE. Peccato che nello stesso anno le perdite e il passivo legati ai derivati siano saliti di circa il doppio, ovvero di 5,46 miliardi.
A dirlo è un rapporto di Eurostat, che svela alcuni dati a dire poco sconcertanti. Le perdite per l’Italia nel periodo 2011­-2014 sono state superiori a quelle di tutti gli altri Paesi della zona euro messi insieme: 16,95 miliardi di euro per l’Italia, 16,35 per la zona euro. Alcune nazioni, quali Francia, Belgio o Irlanda, hanno registrato anche dei surplus consistenti.
In un’audizione in Parlamento tenutasi a fine 2014 si è scoperto che il Tesoro gestiva derivati per circa 160 miliardi, con una perdita potenziale di 42 miliardi di euro. La perdita è potenziale perché è quella che si registrerebbe chiudendo i contratti al valore attuale (mark­to­market). Se non è quindi detto che lo Stato debba sborsare l’intera cifra in futuro, colpisce quanto poco si sappia e quanto siano scarne le informazioni fornite dal governo. A maggiore ragione nei giorni in cui lo stesso governo pubblica il DEF e si fa vanto dello “straordinario” risultato – e parliamo anche qui di una previsione e non di dati a consuntivo – legato a un tesoretto di 1,6 miliardi, circa trenta volte più basso delle potenziali perdite in derivati.
Solo la pubblicazione dei dati Eurostat e un’inchiesta pubblicata il 24 aprile sul Sole24Ore hanno permesso di portare alla luce alcune fondamentali informazioni. Si viene così a sapere che quasi l’80% delle perdite potenziali sono legate a contratti chiamati “Duration Interest Rate Swap”. Difficile anche solo capire di cosa si tratti, visto che persino un sito specializzato in finanza come Bloomberg sottolinea che questa tipologia di derivato “non è definito nella letteratura finanziaria”. In ogni modo, sempre secondo Bloomberg, dovrebbe trattarsi di “una scommessa sull’andamento futuro della struttura dei tassi di interesse”.
Una “scommessa”? Ma i derivati nella pubblica amministrazione non dovrebbero essere utilizzati unicamente con finalità di copertura? Il ministero dell’Economia sostiene in realtà che contratti simili servano ad allungare la durata del debito. Peccato che secondo il Sole24Ore si è passati da una durata media di cinque anni e mezzo a una di cinque anni e 9 mesi. Per essere precisi 84 giorni che potrebbero costare, a quanto è dato sapere oggi, 42 miliardi di euro.
Sempre dall’inchiesta del Sole24Ore emergono altri dati, se possibile ancora più preoccupanti. Ad esempio riguardo il derivato chiuso a inizio 2012 dal governo Monti, che ha portato a sborsare alla Morgan Stanley 3,1 miliardi di euro. Prima considerazione, la cifra è circa mezzo miliardo superiore a quanto era noto, tant’è che il Financial Times a giugno 2013 sosteneva che l’importo fosse di 2,57 miliardi di euro. Mezzo miliardo di euro su una singola operazione, con l’informazione che viene fuori a tre anni di distanza, unicamente grazie a un’inchiesta giornalistica.
Nel merito, tale perdita era legata alla chiusura di tre “swaption”, ovvero delle opzioni riguardo l’ingresso in un contratto swap. In pratica un derivato sull’acquisto di un derivato, che secondo il Sole24Ore significa “fare cassa acquisendo rischi potenzialmente illimitati, l’esatto contrario della copertura”. L’esatto contrario perché, nei contratti firmati dal governo italiano, era la controparte, ovvero la banca, a potere decidere se acquistare o meno lo swap, ovvero in qualche modo ad assicurarsi. Per quale motivo il nostro governo si è messo a vendere assicurazioni alle banche d’affari?
Ribadiamo che nelle stesse parole del MEF, i derivati servono a “comprare una copertura assicurativa che minimizzi l’impatto di eventi sfavorevoli”. Comprare, non vendere. Più in generale, partendo dalle parole del MEF, sarebbe interessante sapere come si sia arrivati alla situazione attuale; capire in che modo quello che Bloomberg definisce una scommessa che non è nemmeno definita nella letteratura finanziaria possa essere equiparata a un’assicurazione; farsi spiegare perché la vendita di un derivato che contiene un altro derivato è considerata una normale operazione di politica economica; com’è possibile che le perdite per la sola Italia siano superiori a quelle di tutta l’area euro; quali siano le coperture per potenziali perdite di oltre 40 miliardi; se 160 miliardi è il totale di derivati o se dobbiamo attenderci nuove sorprese nel prossimo futuro; e le domande sarebbero molte altre.
Una prima possibile risposta viene dalla stessa inchiesta del Sole24Ore, che sottolinea come, tra amministrazione pubblica e banche d’affari, “almeno all’inizio i rapporti di forza tra i negoziatori erano chiaramente sbilanciati”. Sarebbero però necessarie quanto urgenti risposte più puntuali, così come un’informazione chiara sui rischi futuri e le misure messe in campo per contrastarli. Peccato che al momento, tutto quello che si è saputo dal governo, per bocca del sottosegretario all’Economia Baretta, è che “in merito ai dettagli informativi sul portafoglio derivati è allo studio una nuova e più efficiente metodologia di ampliamento del set informativo e della sua periodicità”.
Al momento non è dato sapere altro, né sembra ci sia una grande pressione sul governo. Forse anche perché, parlando di spese dello Stato, oggi gran parte dei media e dell’opinione pubblica è concentrata sul fare a gara per denunciare “quanto ci costano gli immigrati”, e a rivedere le politiche di intervento nel Mediterraneo per ridurre i loro “costi eccessivi”. Benvenuti nel Paese in cui qualche decina di milioni di euro per salvare vite umane è una spesa insostenibile, ma qualche decina di miliardi di euro versati alle banche d’affari per coprire perdite finanziarie non pone problemi e non interessa nessuno.