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Finanza e clima: un ruolo per le banche centrali?

Lo scorso settembre Mark Carney, nella sua doppia veste di governatore della Bank of England e presidente del Financial Stability Board del G20, ha pronunciato ...

Emanuele Campiglio
Emanuele Campiglio
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Lo scorso settembre Mark Carney, nella sua doppia veste di governatore della Bank of England e presidente del Financial Stability Board del G20, ha pronunciato un controverso discorso sul rapporto tra sistema finanziario e cambiamento climatico.
La cosa ha suscitato numerose perplessità. D’altronde, il ruolo tradizionale dei banchieri centrali è di occuparsi di stabilità dei prezzi e di supportare il sistema bancario: da quando si interessano di ambiente?
Tuttavia, è proprio della solidità del sistema finanziario che Mark Carney si preoccupa quando sceglie di discutere i possibili effetti del cambiamento climatico.
È infatti diventato sempre più chiaro in tempi recenti come i legami tra finanza – largamente intesa come sistema globale del credito – e sostenibilità del sistema economico sono molteplici e profondi, e ben presto destinati a diventare più stretti.
I principali temi identificati da Carney sono due. Innanzitutto, eventuali sconvolgimenti ambientali potrebbero provocare danni ingenti a infrastrutture e capitale produttivo; questo avrebbe importanti ripercussioni sul sistema assicurativo.
In secondo luogo, l’implementazione di politiche volte a diminuire le emissioni inquinanti potrebbe portare ad un drammatico crollo del valore delle attività che fondano il loro business sull’estrazione, distribuzione o utilizzo di combustibili fossili, tra cui si contano alcune tra le più grandi imprese a livello globale – Shell, BP, Exxon, Eni, e molte altre.
Se si vuole sperare di transitare verso fonti pulite di energia e contenere l’aumento delle temperature sotto i 2°C, una porzione rilevante delle riserve di petrolio, gas e carbone deve infatti rimanere nel terreno e non essere estratta. Questi giacimenti, che attualmente contribuiscono a determinare il valore delle imprese che le posseggono, diventerebbero quindi ‘stranded assets’ con valore economico prossimo allo zero. Un eventuale tracollo di queste imprese potrebbe innescare una crisi finanziaria sistemica, che a sua volta porterebbe a recessione, bassa occupazione e un generale peggioramento delle condizioni di vita.
È necessario gestire in modo prudente e lungimirante la drammatica riallocazione di risorse umane e finanziarie che una vasta transizione energetica comporterebbe, anche in considerazione del fatto che l’ipotesi alternativa – continuare ad utilizzare energia fossile e accettarne gli effetti in termini di instabilità climatica – potrebbe nascondere trame ampiamente più catastrofiche.
In questo contesto il ruolo delle istituzioni adibite alla politica monetaria e alla regolazione del rischio finanziario può essere determinante. Ad esempio, si può migliorare l’informazione pubblica sul tema e richiedere a grandi banche e compagnie assicurative di adottare misure oculate di lungo periodo per gestire i rischi legati al clima, di modo da minimizzare le possibilità di crisi sistemica.
Oppure le banche centrali potrebbero rivestire un ruolo più attivo nel processo di allocazione del credito, modificando gli incentivi delle banche private di modo da espandere i flussi finanziari diretti agli investimenti in energia rinnovabile e altre attività ‘verdi’. Ciò può avvenire in diversi modi. La banca centrale cinese, ad esempio, ha avviato un ampio programma di ricerca per cercare di rendere il proprio sistema finanziario più sostenibile da un punto di vista energetico e ambientale, e attivato politiche di ‘soft pressure’ nei confronti delle banche perché concedano prestiti più facilmente a imprese verdi. La Banque du Liban ha invece optato per l’alleggerimento dei requisiti di liquidità per le banche private che creano credito a favore di quegli investimenti che porteranno ad un abbattimento delle emissioni di CO2.
Il think-tank strategico del primo ministro francese – France Strategie – ha proposto un meccanismo per finanziare gli investimenti low-carbon europei attraverso la creazione da parte della banca centrale di ‘certificati’ a favore delle attività in grado di ridurre le emissioni, titoli che le banche private creditrici possono poi utilizzare alla stessa banca centrale per soddisfare i propri requisiti di liquidità.
Queste politiche sono lontane dall’essere ‘convenzionali’, quantomeno per le tradizionali consuetudini delle banche centrali delle regioni ad alto reddito, abituate da decenni ad occuparsi unicamente di inflazione.
Tuttavia, a guardare bene, il comportamento recente delle banche centrali internazionali ha avuto ben poco di convenzionale, e la gamma delle loro funzioni e sfere d’azione si è notevolmente espanso. Hanno prima abbassato i tassi d’interesse, ancora oggi vicino allo zero; e creato poi quantità di liquidità senza precedenti – il cosiddetto Quantitative Easing – nella speranza di ravvivare un sistema del credito bancario moribondo. Al contempo, sono stati avviati programmi di acquisto di debito pubblico in grado di salvare dalla crisi intere nazioni – approccio considerato inadottabile fino a pochi anni fa – nonché massici rallestramenti di titoli privati ‘tossici’.
Insomma, a partire dalla crisi finanziaria i banchieri centrali hanno assunto sempre più rilevanza nello scacchiere economico globale. Personaggi come Mario Draghi e Janet Yellen sono oggi in grado di determinare le dinamiche socio-economiche internazionali più profondamente che molti capi di governo.
Viene perciò da chiedersi, di fronte a tale prodigarsi di misure a sostegno del sistema finanziario, e di così vasto potere, se non sia possibile pensare ad un intervento monetario in supporto all’economia sostenibile. Ad esempio, un’idea che sembra riscuotere consenso è quella di un Green Quantitative Easing, ovvero un processo di creazione di liquidità da parte delle banche centrali destinato a finanziare investimenti in settori verdi. Così come hanno acquistato imponenti quantità di titoli di debito sovrano, allo stesso modo potrebbero acquistare i bond emessi da specifiche banche di sviluppo – la Green Investment Bank britannica ad esempio – o altre istituzioni pubbliche con una missione di sostenibilità.
D’altronde, non sarebbe di certo la prima volta che un tale potere viene esercitato. Come la stessa Federal Reserve americana evidenzia, le banche centrali dei paesi industrializzati come gli Usa hanno storicamente fatto largo uso di politiche ‘macroprudenziali’ volte a incanalare i flussi di credito verso settori considerati strategicamente rilevanti, come ad esempio quello immobiliare. In Canada si sono sporti oltre, creando una Industrial Development Bank a supporto di piccole e medie imprese, le cui operazioni sono state interamente finanziate dalla banca centrale canadese per più di trent’anni. Numerosi paesi in via di sviluppo applicano una grande varietà di politiche a supporto di settori specifici oggi stesso, e a volte, come nei casi di Cina e Libano menzionati sopra, anche a favore di investimenti verdi.
Certo, lo scenario non è esente da rischi. Il distaccamento delle banche centrali da mansioni extra-monetarie ha avuto luogo per alcune solide ragioni, tra cui il mantenimento dell’indipendenza delle banche centrali dalle volatili decisioni dei governi nazionali.
Se si concede alle banche centrali di creare incentivi a favore delle attività low-carbon, che cosa impedisce loro di ‘manomettere’ il mercato del credito ancora di più, iniziando a favorire altri settori e imprese, magari al soldo di qualche politico interessato a farsi rieleggere? Un attento meccanismo di monitoraggio e bilanciamento deve essere quindi sviluppato, di modo da ridurre al minimo le distorsioni e le inefficienze.
Tuttavia, per quanto affidare potere decisionale ai burocrati pubblici sulla creazione e allocazione di credito possa comportare rischi, risulta difficile capire come lasciare questo vasto potere nelle sole mani del sistema bancario privato – legittimamente mosso dalla ricerca di profitto anziché dal miglioramento del benessere sociale – possa portare a risultati migliori.
La discussione sul ruolo del sistema finanziario nella transizione low-carbon andrà ben oltre la conferenza di Parigi, in cui si sono principalmente affrontati altri temi. Nella categoria ‘finanza’ ha avuto maggiore spazio la questione dei flussi di risorse dai paesi ad alto reddito a quelli in via di sviluppo, volti a compensare questi ultimi per la loro minore responsabilità storica in termini di emissioni e la loro maggiore vulnerabilità al cambiamento climatico.
Per quanto riconoscere e quantificare questi flussi abbia una evidente valenza storico-politica, in ultima analisi essi non sono che briciole rispetto a quelli che molti paesi in via di sviluppo sarebbero in grado di generare attraverso il sistema di credito domestico.
È quindi a livello nazionale che il discorso sulla green finance va spostato, perché è dalle risorse domestiche che più facilmente può scaturire la scintilla della transizione. Ma perché ciò accada è necessario che il sistema bancario e finanziario la supportino attivamente, concedendo il tanto necessario credito che ora scarseggia. In questo, il ruolo svolto da Mark Carney e i suoi colleghi può risultare estremamente prezioso.
Pubblicato da Eutopia magazine
Foto: just.Luc via Foter.com / CC BY-NC-SA